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Scienza & metodo Biostoria

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Prof. Antonia Colamonico, epistemologa.

Centro Studi - Acquaviva F. (BA)

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aula cenacolo

sabato 5 aprile 2008

IL NODO


di Antonia Colamonico

(da Ed altro in Le stagioni delle Parole. 1994)

Si incontrarono per caso.

Quanti incontri sono dovuti al caso, quel caso che ti porta ad essere lì in quel secondo, proprio quello, e in quel lì e non un altro, perché è quello l’incontro. Quante volte, quel caso, seguendo il suo disegno che non è il mio e non è il tuo, entra con determinazione a slegare o ad annodare noi che andiamo lungo sentieri ed autostrade, con salite e con discese, nelle intemperie e nei sereni.

Si incontrarono per caso, una sera di novembre nella sala di un albergo di riviera. Fuori il vento, confondendo mare e cielo, polverizzava gli spruzzi dolciastri che infangavano gli abiti dei passanti e il bianco del viale.

I loro occhi per un po’ si studiarono e subito si scartarono. Lui continuò ad annotare sulla agenda tutti gli impegni della settimana, con la stessa attenzione con cui, poco prima, aveva finito di sistemare gli appunti della relazione, quella che l’indomani avrebbe esposto a quegli esperti di settore. Amava l’ordine discreto del tempo che corre lungo il suo binario, senza mai alterare la sua velocità. Amava la ripetitività delle azioni che si inanellano le une alle altre con un non so che di languido e di fatale. Nel suo chiamare con il lapis secondi, azioni, luoghi ed emozioni giocava a sistemare il puzzle della vita e alla fine di ogni giorno, con un velo di piacere, sottolineava il secondo, l’azione, il luogo, l’emozione che si erano puntualmente compiuti, avverando i suoi programmi. Lei rientro nel suo sogno che andava veloce, per poi decelerare, quasi a fermarsi e, con una rapida inversione, cambiare direzione. Era stato quel sogno che l’aveva spinta, fuori stagione, su quella spiaggia. Amava gli spazi che ora allargandosi e ora restringendosi, si intersecano in fotogrammi disordinati, miscelati dallo zoom del suo occhio. Amava i colori che danno forma alle cose e si incantava dietro un rosa, un blu, un giallo, un verde, un viola. Nel suo vagare di spazio in spazio, giocava a perdersi in un secondo, in un’azione, in un luogo, in un’emozione. Le sue giornate non avevano una cronologia, al lunedì seguiva un giovedì e a questo una domenica o, forse, un martedì. Il suo tempo non era segnato dal quadrante di un orologio, a cui aveva rinunciato sin da bambina. Continuarono a dimenticarsi per tutto il resto della serata, quando a cena si ritrovarono seduti alla stessa tavola, senza dirsi una parola, quando al bar ordinarono un caffè. Quando, dopo, in poltrona lei rideva sulla vita; mentre lui discuteva dello stallo finanziario.

L’indomani un sole sfacciato fece capolino da dietro l’ultima onda e con il suo calore prosciugò il giallognolo delle pozzanghere.

Lei entrò nell’ingranaggio di quel tempo a colazione, quando lui notò il colore del suo corpo che, in punta di piedi, cercava di non destare le lastre del pavimento, egli ebbe voglia di chiudere in uno scrigno quel frammento di visione.

Lui invase quel campo, durante la relazione, quando lei, distrattamente, sentì il costante affluire delle sue parole ed ebbe voglia che quella ninna nanna non si fermasse più.

Lui fermo nel grigio di quegli occhi, percepì la poesia di tale insieme.

Lei capì di essere la destinataria di tutti quei bilanci, conti e proiezioni che si coloravano di marroni, i suoi occhi; di dolcezza, la sua bocca; di calore, la sua spalla.

Il caso dall’alto aveva da tempo plasmato quelle inconsapevoli esistenze, per farne un nodo stretto, stretto.


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